sabato 9 settembre 2017

Capitolo 1 - Il sogno

Il cerchio si chiuderà ancora
Sorriderò e sarò potente
Sarò seguito da nuove legioni che compreranno nel mio nome
Le anime dei nuovi seguaci.
Gli dei del mistero mi saranno riconoscenti
E mi daranno vita mille volte
E mille volte per mille io prenderò anime.
La grande B di Belzebù e di Berlich
Sarà la nuova bandiera sotto cui rivivrà il mio regno.

[Adolf Hitler]




“Veniva giù tutto, come se fosse tenuto insieme da polvere e acqua. Non esisteva la resistenza, non esisteva più la forza, la coesione era una qualità scordata da coloro che l’avevano eretta. La torre si sdoppiava per poi scendere come un bambino che cade dalla sua piccola altezza, accasciandosi, svenuto, pochi centimetri lì sotto. Toccando terra avrebbe svegliato colei che lo stava sognando. Succedeva da qualche notte la stessa scena e lo stesso confuso risveglio.” 


 Standosene a cavalcioni sul davanzale di una finestra di legno che poteva essere almeno del 1910, faceva finta di non accorgersi di nessuno e di niente. Sembrava stesse pregando, le si muovevano le labbra e il suo corpo dondolava come quello di un monaco tibetano durante l’esecuzione dei mantra serali. Eravamo in un appartamento forse fin troppo grande per la sua normale funzione abitativa. Era nel centro di Milano, nel bel mezzo di una festa piena di gente che sembrava cercare il pretesto per svelare la propria originalità. Compivano tutti dei grandi sforzi per rompere la crosta di un vestito non firmato come se fosse stata la camicia di Hulk ma, non riuscendoci, cambiavano maschera di volta in volta, a seconda della scena. Solo lei non indossava altro al di fuori del suo maglione e delle sue scarpe verdi sotto il risvolto dei jeans. Lo si capiva senza nemmeno guardarla in faccia. Le sue spalle esprimevano uno strano orgoglio d'altri tempi.
Guardava fuori ma era evidente che una parte della sua attenzione fosse rivolta all’interno come a una memoria metafisica e specifica. Altresì, sembrava non trascurare il pericolo che un qualche maldestro uomo scravattato d’ufficio (di quelli ancora maleodoranti di ventola di personal computer) potesse spingerla di sotto. Emanava una dignità incurante.
Mi avvicinai a quella finestra tenendo in mano un bicchierino di plastica mezzo pieno di arachidi sbucciate da qualche macchinario pagato caro. La bellezza si voltò, come disturbata dalla mia presenza, guardandomi con un’espressione così incolore da sembrare minacciosa. Mi scrutava con un tale peso specifico da creare un vento di atomi così elettrici che l’avrebbero protetta da qualsiasi pericolo. Aveva a disposizione una tale bellezza che nessuno al mondo avrebbe potuto girarsi e andare via rimanendo uguale a prima. Io non rappresentavo una vera minaccia. Dal riflesso della finestra, infatti, bastava monitorare le mie occhiaie da libraio mancato e le braccia un po’ troppo magre, simili a quelle di un religioso del quindicesimo secolo, per essere rassicurati.
Mi ricomposi come potevo e proseguii la mia osservazione invadente. Lei aveva la bocca umida di chi ha appena finito di fare l’amore e le braccia pallide come quelle di una prostituta di lusso. Lasciò passare alcuni secondi, poi pescò alcune noccioline e riportò lo sguardo nel punto dov’era diretto un attimo prima. I tetti rossi erano l’unica inquadratura possibile, a parte una bella porzione di cielo con al centro due stelle solitarie senza nome. Abbandonai il bicchierino vicino a lei e mi allontanai facendo finta di non essere più interessato, soffocato dal timore di essere allontanato con troppa delicatezza. Provai a gironzolare fra i tavolini pieni di bicchieri usati e tartine disordinate ma, come al solito, non c’era verso di trovare un senso di agio.
La musica da night club d’alta categoria era diffusa a volume medio basso e poteva animare solo chi non la sentiva. Un terzetto di ragazze fintamente ubriache ballava, attento a non occupare il centro dello spazio. Tutti gli altri, spalmati contro le pareti, guardavano i pantaloni accorciati fino al ginocchio di una, fingendo di non inquadrare il suo fondo schiena, usando la vista come fosse un senso di poco valore. Il gin tonic che avevo recuperato sapeva di limonata ma era anche fortissimo e faceva venire voglia di fumare, ma non fumai. Adocchiai la ragazza del davanzale vinto un’altra volta dal suo magnetismo. Aveva le braccia tese lungo i fianchi e le spalle vicine alle orecchie. Di tanto in tanto approfittava del cibo contenuto nel bicchierino ma non sembrava esserne grata. Non si stava annoiando, non aveva la postura di chi non fa altro che guardarsi i piedi perchè è stufo. Ogni tanto parlava da sola, pronunciando delle brevi frasi, poi guardava le stelle qualche attimo, dopodiché tornava ai tetti. Mi chiedevo chi l’avesse invitata e il nome della maschera scivolata via suo viso.
Una bellissima sacerdotessa solitaria, orgogliosa, incurante e ingrata era diventata l'unica attrazione di quella casa. 
In ogni caso non era serata. Troppo spazio, non c’era musica adatta e le ragazze sembravano tutte volersi fare i fatti propri. La mia bevanda sembrava una bibita da piscina comunale e io ero lì da solo perché l’amica che mi aveva invitato litigava da un’ora con un tale nella sua stanza. Non facevo che gironzolare e disincatenare pensieri con in testa la costante voglia di andarmene via.
Improvvisamente sentii una mano afferrarmi il braccio. Mi girai, era lei. Non sorrideva e mi guardava negli occhi come una santa.
- Io ti dico una cosa, una breve frase, poi ci salutiamo e facciamo finta di non aver mai parlato. Tu mi rispondi quello che vuoi, anche la prima cosa che ti passa per la testa. In questo modo tu potrai conoscere i miei pensieri e io i tuoi e il nostro incontro fantasma non sarà andato a vuoto come succede sempre. Sei d’accordo? - disse la ragazza con una voce monastica e pulita.
- Sono d’accordo. - Risposi tenendo distante la mia aura dalla sua.
- Allora la mia frase è questa: Tutto nasce molto prima del momento in cui decide di manifestarsi. Come se fosse il prodotto del suo passato. - Attese. Io Inspirai.
- Certe volte spero nella guerra e mi vergogno ma non ne posso fare a meno. Non capisco come succeda ma ne sono letteralmente affascinato. - Risposi io.
Si girò e se ne andò via sparendo come il fumo di una candela appena spenta, lasciandomi lì ad annusare la sua essenza invisibile.
Decisi di chiedere la via del bagno all’uomo che metteva insieme i cocktail e persi qualche minuto per trovarla. Era un appartamento immenso, sbagliai porta e mi ritrovai di fronte a quella dell’ingresso. Sembrava un segno, decisi di andarmene. Scesi a piedi, non avevo voglia di socializzare nell’ascensore che stava per portare giù qualcuno. Arrivai al piano terra e percorsi il corridoio semibuio che conduceva al cortile. Quest’ultimo era illuminato solo dalla luce indiretta dell’androne ma era accogliente. Al centro, una vecchissima panchina di legno ben conservata, sembrava un’immagine temporanea nell’attesa di svanire in una dissolvenza incrociata.
- Hai una sigaretta normale? - Disse.
Mi girai di scatto. Era ancora la ragazza delle preghiere, stava rigirando una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Mi fece un effetto cinematografico, come se ci azzeccasse con la panchina, come se fosse la nuova inquadratura della dissolvenza. Doveva essere arrivata con l’ultimo carico dell’ascensore. Se ne stava in un cono d’ombra dando l’impressione di aspettare qualcuno.
- Mi è rimasta una di queste, non so cosa intendi per normale. - Risposi facendo attenzione a non mostrare il mio stupore né le mie occhiaie.
Tirai fuori dalla tasca un pacchetto di Chesterfield ammorbidito dalle due settimane di vita, giusto quando avevo deciso di smettere. Lei la prese senza dire niente e l’accese con uno Zippo che aveva già in mano.
Aveva i capelli tagliati in casa e un maglione appositamente bucherellato, sembrava fatto in casa anche quello, che le copriva le braccia fino oltre i polsi. Un paio di jeans sbiaditi e scarpe da tanguèra con la punta arrotondata su una piccola apertura che lasciava scoperte solo le prime due dita, nude. Tra il trentanove e il quarantuno di piede.
- Ti chiedo scusa per non averti ringraziato ma ero in una spirale di pensieri talmente ordinati che non potevo mollare. Mi stavano tornando in mente le preghiere che facevo da piccola, prima di dormire, davanti al letto. Le mie spirali hanno sempre un argomento preciso. E’ da qualche settimana che mi sono messa in testa di ricominciare a pregare. -
- E... le stavi ripetendo? -
- Provavo, le ricordavo a pezzetti. Quelle che mi insegnava mia nonna. – Disse ruotando le spalle verso la luce. - Grazie per le noccioline. – Disse poi a bassa voce senza sorridere. - Mi chiedo sempre se le sbuccia un omino o una costosissima macchina infernale. -
Aveva in mano lo stesso bicchiere di plastica vuoto e lo stava usando come posacenere. Non era capace di fumare e si muoveva lentamente. I suoi occhi, però, andavano avanti e indietro velocissimi scandendo ogni meridiano dello spazio. Passavano di tanto in tanto attraverso il mio corpo e dai miei occhi, rallentavano, poi ripartivano. Aveva qualcosa di poco terreno. Credendo negli astri era come se provenisse dalla più lontana delle due stelle che stava guardando pochi minuti prima. Forse pregava un Dio sconosciuto ai terrestri ma adorato dagli abitanti della stella.
Le domandai se stesse andando via ma la mia domanda non sembrò risuonarle negli spazi appropriati. Si sentiva la musica. Proveniva dalla finestra dell’ultimo piano e arrivava chiaramente fino al cortile. C’erano delle biciclette abbandonate ma ancora incatenate a un palo. Avrei fatto una foto alle bici e alla panchina lasciandola scura così: il flash l’avrebbe rovinata. Sarebbe stato meglio però attendere una luce nuova. In quella luce ci sarebbe finita dentro anche lei, la monaca fumatrice, e avrei avuto la prova di una tale bellezza notturna illuminata dalla luce del sole.
- Sì. Sto andando via – rispose - Non so nemmeno cosa sono venuta a fare. -
- A me è rimasto un cocktail a metà strada nella gola e ho ancora sete, il tuo bicchiere com’era? - dissi.
- Dovresti chiederlo a quella pianta. – Rispose ridendo e proiettando con lo sguardo la caduta del liquido dalla finestra. Poi, guardandosi per una frazione di secondo le dita in movimento spuntare dall’apertura delle scarpe, mi mandò uno sguardo timido.
- Dieci metri svoltando l'angolo e c’è un tipo tatuato che i cocktail li sa fare, se hai voglia ci rifacciamo. - Dissi.
Accettò e, dopo aver guardato me per tre secondi netti negli occhi e per mezzo secondo il suo telefonino, disse: 
- Devo dirti una cosa. - Sembrava dover tirar fuori una richiesta che avrebbe vincolato i giorni che stavano per arrivare. - Ho vissuto quasi tutta la mia infanzia a Roma. - Attese rivolgendo lo sguardo alla panchina ma non avevo capito il motivo di quella dichiarazione. - Ma sono nata a Tel Aviv. E sono anche ebrea. - Socchiuse gli occhi senza smettere di guardarmi.
- Lo puoi bere comunque il gin tonic? - Domandai dopo una breve attesa.
Scosse la testa e i capelli si mossero in segno di assenso.
- Posso dirti una cosa? - Dissi io. E stavolta fu lei a svincolarsi da me. - Non sono ancora musulmano anche se vado matto per il Kebab… e per i nomi arabi. -
Il resto della serata trascorse a ricordare le mie preghiere, sbagliando ogni volta e chiamandole poesie. Poi passammo ai dieci comandamenti (argomento forte per lei) per finire con le frasi tipiche da preti. Quella per me più esilarante fu: “Dobbiamo liberarci tutti dalla sensualità che ci avvolge, altrimenti Satana s’impossesserà di noi…”. Ma nell’esatto momento in cui finii di pronunciarla notai in lei un cambio d’attenzione. Mi guardò intensamente negli occhi e mi disse: 
- Perché hai detto proprio questa frase? Da dove ti è uscita? - 
Non sapevo davvero cosa rispondere e un attimo dopo fu lei a togliermi dall’imbarazzo dicendomi: 
- Scusa, non volevo interromperti, è che ogni tanto certe frasi risuonano in me come l’assordante campanello di un tram, sai quando attraversi la strada con la musica nelle orecchie e lui ti sta per tirare sotto?... - 
Finì momentaneamente così.
Non ero certo d’averla riportata tale e quale ma in quel momento il gioco aveva preso il sopravvento e, anche se quella ragazza non rideva ad ogni stupidata, fu facile esagerare.
Ad un tratto mi fece una domanda che lasciò emanare la sua serietà e un ritorno alla vibrazione precedente.
- Quanti sinonimi conosci per nominare Satana? -
Presi a rispondere con leggerezza i primi sinonimi o pseudonimi che conoscevo e che molte volte erano stati tema di conversazioni stupide. -
- Quanti ne conosci che iniziano con la lettera B? -
Inspirai e risposi che mi sembrava di ricordare solo il nome di Belzebù ma che in quel momento nemmeno quello mi sembrava così serio da farne un argomento di tale peso.
- E’ una delle cose che mi tormenta di più. Molte volte sogno una grande B ricavata da un’immensa roccia nera. È tutta cesellata di fino, decorata come una scultura impossibile da realizzare da mani umane. La sto osservando e qualcuno mi chiama da dietro picchiettandomi sulla spalla sinistra. Mi volto e alla vista di un capro parlante mi spavento e mi sveglio di colpo. -
Rimasi ad ascoltare incuriosito più dalla sua serietà che non dal tema del sogno poi fu lei a sciogliere l’incantesimo dandomi un bacio sulla guancia.

Tornai a casa dopo averle dato un passaggio a piedi ed essermi interrogato più volte sulla sua intelligenza. Aveva detto tante cose, alcune sembravano insensate ma forse non ero stato bene ad ascoltare. Si era messa a parlare niente meno che di Re Salomone e del relativo tradimento. Ero agitato. Volevo rintracciare il suo viso, confuso fra una ridda d’immagini. Mentre camminavo a passo di formica sul marciapiede che circondava l’Arena Civica, tutto sembrava avere senso, il granito che teneva insieme il marciapiede era un pezzetto del suo sogno, gli alberi mi guardavano suggerendomi una certa pace. Ogni nuvola assomigliava a un animale. Ogni passante era un messaggero Celeste.
Avevo notato che più di una volta il suo scurissimo occhio sinistro era diventato impercettibilmente strabico, per alcuni attimi. Si spostava di una frazione di millimetro all’esterno per poi ritornare al centro qualche secondo dopo. All’inizio avevo dato la colpa al gin, poi era diventato più evidente. Camminavo e pensavo a quello sguardo affascinante come una Uri del paradiso desiderando una matita per poterlo disegnare in modo da ricordarlo. Tutto si muoveva nella mia memoria troppo velocemente e il suo viso spariva e riappariva come l’immagine in un televisore sintonizzato male.

Conobbi Saraluna in questo modo. Nella più grande incertezza della ragione ma in un chiaro acquario di emozioni. Nei giorni successivi ci furono altri due incontri casuali. Il primo in un supermercato. Fui io a riconoscerla, stava scegliendo delle banane incredibilmente mature. Indossava un paio di scarpe identiche alle altre, cambiava il colore: queste bordeaux, le portava anch’esse senza calze. Mi avvicinai, la presi in giro dicendole che il reparto concime era da un’altra parte. Lei rise come se mi conoscesse da mesi e, continuando a guardare lo scaffale, non mi salutò nemmeno, pensai che mi avesse visto per prima ma fingesse il contrario. 
- Invece il reparto soprammobili di porcellana deve essere nuovo in questo supermercato -, disse poi guardando le mie banane verdi per quanto erano acerbe. 
La pelle del suo viso era bianca come lo schermo del computer in un foglio di Word. I colori dei suoi occhi sotto i neon si erano svelati: il sinistro nero come il vuoto con dei piccoli raggi verdi, il destro verde scuro come una foglia di limone illuminata dalla luna piena. Non era ancora stata richiamata sul suo pianeta.
La seconda volta fu quando mi sorprese davanti una vetrina di scarpe da donna. Ero stato attratto da un paio simili alle sue. Erano uguali al modello indossato dalle ballerine delle gare in televisione, quelle che si cospargono barattoli di brillantini nei capelli e ciò che avanza lo svuotano nella crema che mettono sul decolleté e sulle gambe. Come quella della foto in vetrina.
Ero perso nei pensieri quando mi si avvicinò lei senza farsi notare e, a un millimetro dall’orecchio, a bassa voce, mi disse: 
- Non sono belle come le mie vero? - 
Mi girai verso di lei non sapendo cosa dire ma con una voglia tremenda di rispondere qualcosa che la facesse ridere. Ero stato sorpreso proprio dal soggetto dei miei pensieri. Non avrei potuto nemmeno negarlo e, in una frazione di secondo, avrei dovuto inventare qualcosa.
- Sono due giorni che ti aspetto vuoi dirmi dove diavolo sei finita? – Dissi io continuando a guardare la vetrina.
- Amore scusami se ti ho costretto in questa posizione con il naso sul vetro per due giorni, non sapevo come vestirmi e poi lo sai che sono sempre in ritardo agli appuntamenti ma, prima o poi, arrivo! – 
Aveva gesticolato come un’attrice di teatro portando pollice e indice alle tempie, poi agganciato il mio braccio al suo.
Era stata veloce. Mi aveva sorpassato di nuovo. Girandomi vidi i suoi occhi allineati e simmetrici. Non sapevo ancora chi fosse ma aveva fatto risuonare per ben tre volte tutte le corde sparse in ogni angolo del mio corpo. Un violoncello accordato di fresco. Era come un incontro organizzato dalla televisione teso e rilassato allo stesso tempo.
- Ti perdono se mi prepari un frullato compostabile con le tue banane da concime. -
Mi sorrise e, ripetendo compostabile... sottovoce, mi invitò a casa sua quello stesso pomeriggio dandomi un appuntamento due ore dopo e avvisandomi che non sarebbe stata sola.
Arrivai. Mi accolse con calore. Era a piedi nudi. Sembrava una persona diversa, molto morbida e materna. Mentre stava finendo di frullare la frutta, mi domandò ad alta voce, dalla cucina, la conferma che non fossi schizzinoso e se avesse potuto esagerare con gli ingredienti. Risposi che poteva mettere tutto quello che voleva, avrebbero comunque vinto le banane. Si sentì appena la parola compostabile… pronunciata da lei come un sibilo.
Arrivò alle spalle del divano, dove mi ero nel frattempo seduto e mi disse di assaggiare subito la sua ricetta, che non c’era tempo e si sarebbe ossidata. Presi un bicchiere dal vassoio che teneva in mano e ne bevvi un sorso. Mi resi subito conto di avere esagerato con la fiducia. Forse era una persona distratta. Tossii. Avevo paura di aver fatto male ad auto invitarmi. Sembrava ci fosse caduto dentro un oggetto solido e si fosse tritato insieme al resto. Non sapevo come dirglielo, conteneva qualcosa che si triturava a fatica sotto i molari. “E’ un test...” Pensai tra me e me. “Vuole sondare la mia capacità di mediazione, sta misurando la mia sincerità. Vuole vedere dove posso arrivare con il comportamento mascherato del seduttore.” Un cretino qualunque si sarebbe sentito perfettamente a suo agio ma non io.
- E’ uovo… - Disse guardandomi come una zia con budino e nipote, stando in piedi come una cameriera dandy infilata nei suoi jeans di due misure più larghi.
- Intero. – Aggiunse tenendo in mano il vassoio in attesa che accadesse qualcosa.
- Compreso di guscio, intendo. – Precisò paziente.
Si sedette di fianco a me serena, come se fosse telepaticamente consapevole delle mie giostre psichiche.
- Ho letto che fa molto bene, rinforza le ossa e contiene una qualche sostanza che non si riesce a ottenere da altri alimenti. Poi tu stesso me lo hai chiesto compostabile no? -
Prese il suo bicchiere e usò un cucchiaio per gustarlo lentamente e a piccole dosi. Aveva le labbra umide e rosse.
Non sapevo cosa dire ma il sapere cos’era quella sabbiolina mi aiutò ad accettare la bevanda anche se aveva la consistenza di un frullato di ossa di gallina.
- Quella è la mia foto preferita. – Disse indicando con il cucchiaino, sulla parete, una donna in abiti da derviscio roteante su uno sfondo scuro. Poi stette in silenzio e lasciò a me il compito di osservare quello che ornava la sua casa.
- L’hai scattata tu? -
- Sì, a Konya, in Turchia, uno dei posti più belli del mondo. Dopo Gerusalemme, intendiamoci… -
“Il monastero… Che strana donna” pensai. Poi restammo ancora in silenzio.
- Io e te avremo una storia d’amore, vero? - Disse senza distogliere lo sguardo dal frullato.
Non capivo se era una domanda o un bisogno di rassicurazione. La guardai. Stava sorridendo.
- Ormai ci siamo incontrati troppe volte per poterla evitare. – Risposi per proseguire.
- Dimmi solo però cosa pensi della morte. -
Faceva delle domande che richiedevano l’assunzione di un’aria teatrale dandomi la possibilità di rispondere qualsiasi cosa, di indossare qualsiasi costume. Mi sentivo libero di rispondere anche la prima stupidaggine mi venisse in mente ma avevo la sensazione che lei avrebbe colto ugualmente il vero senso, al di là delle parole travestite.
- Della fine, intendo dire. – Precisò e mi lasciò il tempo di sbarrare gli occhi per un attimo.
- In genere quello che mi turba maggiormente nella fine di qualcosa é la responsabilità di lasciare un segno positivo. Oltre alla preoccupazione di uscirne felice. -
Lei mi volle rassicurare dicendo una frase che mi sarei ricordato a lungo. La pronunciò mentre mi guardava negli occhi alternandoli velocemente.
- Se mai dovesse accadere qualcosa tra noi, non voglio arrivare al punto di spremere la nostra anima come il tubetto esaurito di un dentifricio. Per le mie credenze abbiamo sette anni di tempo dopo di che ci sarà una conclusione. Non vuol dire per forza che sia la fine, potrebbe partire di nuovo tutto da lì, ma una conclusione è importantissima e va celebrata. E’ fondamentale il modo con cui la si affronta. -
Avrei voluto confermare ma rimasi in silenzio.
- Credo nella delicatezza dell’anima sai? (fece una pausa senza cambiare posizione) È la cosa più bella che abbiamo ed è quella parte di noi più vicina a Dio. Ho visto molte persone non accorgersi di questo e alla fine diventare scuri come diavoli. E’ facile, troppo facile… -
Fece un’altra pausa come per darmi la possibilità di decantare.
- La vedo come un lenzuolo bianchissimo e leggero sul quale è possibile scrivere la propria storia. Vorrei scrivere una storia senza macchie nere, se possibile. Una macchia rovina tutto, pensa a un cuscino segnato da una microscopica striscia di rimmel. Non ha assolutamente l’aspetto di qualcosa di pulito, anche se non l’hai mai usato, anche se lo giri dall’altra parte. -
Non avevo mai sentito parlare dell’anima in quel modo così semplice ma anche pratico e sensato. Quello che mi aveva colpito dall’inizio in quella donna era l’assenza di un abbellimento. Non sembrava voler negare le sue zone d’ombra e di conseguenza non le doveva nascondere. Perlomeno in questo mi trovavo ad avere un aggancio che mi teneva piacevolmente appeso a lei. Mi sembrava strano che partisse direttamente dalla fine ma era una modalità leggera e romantica e non mi dava nessun fastidio. Qualora avessi sentito generarsi un disagio sarebbe stato facile comunicarlo ad una persona così intelligente.
- Ti farò un regalo e, se lo desideri, tu lo farai a me, dopo andremo a cena nel ristorante più romantico che conosci e a metà della cena mi chiederai di esaudire un tuo desiderio. Poi ci daremo un nuovo nome che avrà un senso solo per noi. Infine ci baceremo leggeri come per incontrarci nel cielo la prima volta. Oltre la nona nuvola. - Disse tutto sorridendo e guardandomi con due occhi da bambina. - Sperando che quelli di Roma non siano contrari, ogni volta che prendo un’iniziativa sembra che loro lo sappiano in anticipo. -

Così conobbi Saralaura. Stranito dal suo essere, dai suoi discorsi solitari e interiori. Colpito dal suo modo di ironizzare sui dieci comandamenti. Dalla sua lentezza esterna e dalla velocità del suo spirito. Affascinato dal suo strabismo intermittente e dalla capacità spiccata di non farsi ingabbiare da una festa riuscita male, né tanto meno dalle mie battute. Incuriosito dalle sue scarpe e dalla telepatia nascosta nel sorriso, dalle uova intere e dalle banane molli, dalla serietà dei discorsi sul maligno ma soprattutto dalla sua energia propulsiva, capace di lasciare in stand-by il mio ego per ore e ore. Avrei voluto chiederle chi erano “quelli di Roma” ma mi trattenni. Immaginavo avesse a che fare con la sua religione e la loro endogamia ma non avevo voglia di dimostrarmi informale davanti a qualcosa che lei avrebbe potuto considerare sacro.
Feci in tempo a innamorarmi, anche se la sensazione che lei non avesse gran che bisogno di me era la prima in classifica fra quelle appena generatesi. Sarebbe stata ben presto smentita però da un vuoto che mi avrebbe lasciato a lungo senza pace. Era chiaro che il conto alla rovescia dei sette anni era appena iniziato e già il pensarci mi sottoponeva a una tensione che conteneva qualcosa di benedetto.

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