martedì 17 ottobre 2017

Capitolo 3 - La Partenza

Una donna, nei miei sogni, stava dando un preavviso del suo arrivo. Mi avrebbe parlato di argomenti sconosciuti come “primo mondo”, meccanismi della mente e di stranezze come “cervelli rettili”. Il comportamento dei guerriglieri, come anche quello dei prigionieri dei lager, oltre che dall’abitudine e dall’incapacità di accettare e cambiare la loro condizione, come credeva Saraluna, era anche dovuto al loro DNA fisico e sociale, a un pacco regalo pieno di caratteristiche ricevute al momento della nascita. Il pacco avrebbe caratterizzato in modo automatico tutta la loro vita e quanto pareva, anche quella di noi due, Saraluna e io.

Martedì 4 settembre, ore 08:00

Il domani è luce e, la notte appena trascorsa, per una funzione istintiva, mi aveva permesso di lavare la mia anima. Un’energia nuova, insita nelle mie cellule, mi aveva trascinato direttamente in una visione ottimista del giorno che stava per iniziare.
Solo un ultimo leggero incubo mi aveva svegliato. Avrei potuto giurare, infatti, di aver sentito nel sonno una voce di donna chiamarmi. “Devo parlare con te” diceva, mentre divise da nazisti animate ma vuote e due clown seduti sul mio letto, aspettavano il mio risveglio, immobili, come ombre ormai sparite.
La pallina dei pensieri che rimbalzava ancora in quella stanza da una parete all’altra, pian piano, faceva gli ultimi palleggi per fermarsi solo con l’arrivo della delicata luce del primo sole. Insieme a questo, una strana finzione di non ricordare più niente.
Stava crudelmente sfuggendo qualcosa di mano al mio rapporto d’amore ma c’era ancora troppa nebbia per capire il motivo e non sembrava essere il momento ideale per la comparsa della scritta Game Over.
I momenti di benessere erano veri e intensi ma sopravvivevano per un tempo limitato, poi si alternavano al loro esatto opposto. Dopo aver fatto la somma algebrica degli stati d’animo, la paura di perderla era il risultato e trovava una porta aperta in un preciso punto del corpo: il plesso solare. Guardando Sara dopo aver fatto l’amore l’ultima volta, mi ero accorto che la sua mimica esprimeva una condizione innaturale del suo cuore. Una tale disinvolta assenza non si era mai manifestata così sfacciatamente. Negli ultimi dieci giorni le era successo qualcosa, del quale supponevo neanche lei si fosse accorta, era plausibile che aspettasse solo la completa comparsa. Ero preoccupato ma volevo ancora credere che non mi nascondesse nulla.
Saraluna a colazione aveva parlato di qualcosa che a tratti mi era rimasto incomprensibile:
- Capisco il tuo desiderio di chiudere con una immaturità che non ci appartiene. So che vorresti rilanciare con qualcosa di nuovo. Un amore più sensato, no? Quell’amore perfetto dal quale vorresti essere guidato. Forse devi solo aspettare la mia accensione completa. -
Sorrise da sola per i termini che aveva usato ma aveva reso l’idea. Era più spettinata del solito e sulla sua bocca in quell’istante era comparso un sorriso perfetto. Poi era diventata più seria.
- Ho parlato con il rabbino di noi ed erano presenti anche altri anziani. Anche loro dicono che è giunta l’ora, ma prima devo fare un importante viaggio, durerà solo qualche giorno, non posso dirti dove andrò e a fare cosa, scusami, sarà una bella sorpresa. -
Rimasi in silenzio per qualche minuto facendo passare davanti a me ogni telefonata, ogni sms, tutte le persone che mi aveva fatto conoscere, ogni sera trascorsa da sola e ogni mio stupido dubbio. Andai a versare il tè nelle due tazze e vi versai il succo di due limoni spremuti come se fosse una medicina da somministrare all’anima. Era una bella giornata, le parole non potevano essere che fluide e lo sarebbero state ancora di più se aiutate dalla volontà.
- Te lo hanno chiesto loro vero? Fa parte di uno dei vostri riti? (non attesi nessuna risposta) Ok, non voglio infastidirti con domande sciocche ma sono settimane che sembri non voler rispondere. -
- No, non mi hanno chiesto niente, e forse non sarebbero neppure d’accordo con la mia partenza. Ma ti prego non voglio parlarne ora. Di sicuro ti toglierò ogni curiosità al mio ritorno. -
- Resteremo in contatto? Oppure sparirai come una testa di cuoio che non può dire nemmeno a sua moglie dove si trova e si annulla per intere settimane? -
- Niente di tutto questo, rilassati e non preoccuparti per me. Non è un capriccio e non ti sto escludendo dalla mia vita, ma lo sai come sono fatta no? Ogni tanto faccio svanire il mio essere e poi ritorno come prima, forse meglio di prima. -
- Quando pensi di partire? Andrai via in macchina? -
- Non so di preciso quando partirò e non userò l’automobile, basta con le domande o non risponderò più nemmeno al resto. -
- Avvisami in tempo così non rimarrò in pensiero… Caspita sembra la raccomandazione di una zia. -
- Giuro che lo farò, ti voglio bene e non farò niente che possa minare il nostro rapporto. -
- OK, ti credo e mi fido di te… Ma quando torni ti surclasso di domande, lo sai vero?. -
- Beh mi sembra ovvio che se avrò voglia di rispondere lo farò, altrimenti… accantonerai la tua curiosità. -
- Ah! -
Lei rise, io le scagliai addosso un cuscino del divano che lei parò e lasciò cadere a terra. Poi ritornammo entrambi alla colazione.
Era sensibile come una bambina, ma quando parlava con calma e con quella voce rotonda, mi ricordava i toni gravi di una delle sue moto preferite. I tradimenti non c’entravano, mi rassicurò. Mancava, a mio avviso solo una forza calda che interrompesse quella visione ipnotica. Una forza che contenesse, a pari merito, passione e rinuncia. Era come se il mio cuore, e forse anche il suo, fossero ingabbiati in una scatola troppo stretta costringendoli in una forma innaturale. Sembravano due pomodorini costretti a crescere a forma cubica per essere meglio confezionati e facilitarne il trasporto. Era strano, molte volte eravamo riusciti a scovare, dialogando, l’origine di ogni crisi ed eravamo sempre stati bravi a migliorare e divenire più consapevoli. Ma forse stavolta tutto dipendeva anche dalla mia voglia di proseguire in un nuovo flusso. Sentivo l’esigenza di scavare un buco nel muro per vedere cosa c’era oltre ma, per ora, avevo a disposizione solo la toppa di una serratura piena di carta igienica. Desideravo di potermi occupare di lei e che lei si prendesse cura di me come una maga che ti svela i segreti per raggiungere la tua intima essenza. Esattamente quello che ci aveva legato fin dal primo incontro. La mia pizia stava per indossare un nuovo abito cerimoniale e stava per volare via.
In passato mi ero sempre legato in modo esclusivamente emotivo senza trovare un’intelligenza d’amore, ma quella volta il giro di fumo era cambiato: l’energia della forma non c’entrava più. Sulla linea amore-potere mi ero sempre mosso completamente sbilanciato, senza aver mai azzeccato la posizione giusta, con lei invece la magia si era prodotta e insieme avevamo trovato il centro.
Continuava a tornarmi in mente una sua frase dei primi giorni: - Se mai dovesse accadere qualcosa tra noi, non voglio arrivare al punto di spremere la nostra anima come il tubetto esaurito di un dentifricio. - Avrei voluto evitare di tirare in ballo la storia del dentifricio ma la sensazione che quel tubetto, ancora mezzo pieno, fosse stato inavvertitamente gettato nel bidone della plastica riciclabile, mi disorientava.
Ancora perplesso mi chiedevo dove fosse il segreto. E se avessi potuto maneggiare quella specie di forza calda. Qualcosa mi avrebbe costretto a riflettere osservandomi da un nuovo punto di vista. Mi ero accorto che quel moto era percepibile solo a tratti chiaramente e avrei voluto trattenerne la sensazione. Era una scoperta importante, come se avessi trovato qualcosa d’inaspettato in fondo a un organo sconosciuto del mio corpo. Tre minuti di quello strano caldo rigoglio avrebbero ammorbidito la forma del suo muscolo cardiaco. Saraluna, però, sembrava non voler parlare nemmeno di quello.
Fare l’amore con lei era e sarebbe stato bellissimo ma avrebbe azzerato la differenza di potenziale riportando la clessidra al punto di partenza, quindi non propedeutico alla comprensione. Riconoscevo che in quel modo, avrei potuto esprimere una parte di ciò che mi ardeva dentro ma, sempre in quel modo, l’ostacolo, non si sarebbe certo saltato da solo. Via da ogni modello, da ogni film, omologazione o memoria. L’incontro nell’indivisibilità di due corpi avidi di contagio e bisognosi di rimanere l’uno nei paraggi dell’altro come se l’amore fosse un bimbo da tenere d’occhio. Forse in quel momento l’amore era possibile ma ognuno dei due vedeva “l’oltre” senza la capacità di afferrarlo. Come la verità quando è troppo forte.
Lei amava farsi prendere per mano. Come fossimo svenuti. Morti l’uno nell’altra senza che nulla fosse più importante dell’azzeramento di tutte le azioni e di tutti i pensieri. Ecco perché il fare l’amore avvicinava tutto tranne la logica degli avvenimenti futuri.
La fine degli esami era vicina, le decisioni erano in attesa. I progetti andavano fatti e andava trasceso il purismo dell’emozione.
Ancora dieci minuti e, finita la valigia, ci saremmo salutati, l’avrei riaccompagnata da Francesca e da li avrebbe iniziato a mancarmi. Mi stavo accorgendo di come il mio corpo aveva cominciato a rallentare i movimenti. Nel momento in cui lei si voltava mi fermavo a guardarla come se non l’avessi mai vista prima.

venerdì 22 settembre 2017

capitolo 2 - Il presentimento


Mercoledì 19 settembre 2001 
Dall’agenda di Marie:
“Crediamo di avere un’anima ma non sappiamo se è davvero così.”


Lunedì 3 settembre  ore 21:15

La notte, una signora in abito lungo, stava infilando le sue dita nella sera che pian piano svaniva lasciandole timorosamente spazio. Erano dita nodose, come quelle dei guanti di gomma per travestirsi da Dracula. Aveva unghie lunghe, arcuate e lucide. Cercava qualcuno, vagava per la città con la sua divisa nera. 

Ogni volta che camminando mi trovavo in quella fresca scorza, mi sentivo come un agrume non ancora sbucciato, denso, profumato, umido e vivo. In quella condizione, sorgeva un comportamento che consideravo vagamente cretino: facendo finta di essere qualcun altro, dovevo rispondere alle domande che sbocciavano improvvisamente. Quella sera era il turno della domanda che più mi metteva in crisi: “Perché la mia felicità è sempre così instabile?”. Dovevo immedesimarmi nello scarafaggio di Kafka, al suo risveglio. Non sarebbe stato semplice.
La metà del globo dove mi trovavo era in versione dark. La terra stava per cominciare un nuovo sogno. Uno di quelli che il mattino dopo non si ricordano ma ti lasciano un retrogusto che prosegue anche quando sei invece nella metà illuminata. La torre Velasca, arancione e a forma di fungo, era il punto di riferimento, l’osservatorio più bello di tutta Milano. Dovevo sincerarmi della sua presenza per poi proseguire. A lungo mi ero chiesto di quale porzione di mondo avrebbe avuto consapevolezza l’abitante dell’ultimo piano ma ne avevo avuto uno strano timore fino al giorno in cui avevo trovato un appartamento in affitto. 
Non sapevo ancora che la terra fosse un essere compiuto, con un nutrimento e un sostegno da parte di due entità esterne come il sole e la luna che ci ballavano il tango intorno, e non avrei mai immaginato che la vicenda che stavo per vivere me lo avrebbe fatto capire con una tale chiarezza. Avevo fino ad allora creduto di poter cambiare il corso delle cose, ma solo adesso stavo per capire che esistevano leggi immutabili alle quali il piccolo ometto, pulviscolo del grande essere, non avrebbe potuto far altro che asservirsi. A dire il vero una scelta l’aveva: il compiere uno sforzo per affrancarsi dalle leggi che lo sovrastavano ma questo avrebbe potuto essere contro natura. 
Avevo 33 anni, una laurea inutilizzata, un sogno segreto nel cassetto, un piccolo tatuaggio sulla mano sinistra, mettevo le posate nel terzo cassetto per sembrare originale e odiavo i mobili economici da auto montaggio anche se me li ero comprati lo stesso nella speranza che la scelta della loro posizione potesse impreziosirli. Avevo nell’armadio un cappotto sgualcito da trenta euro che Saraluna non sopportava, un paio di scarpe da trecentoventi e non sopportava nemmeno quelle anche se rappresentavano la mia contraddizione che invece le piaceva. Avevo molti libri, alcuni dei quali che mi ero convinto e raccontavo in giro di avere rubato io, ma non era vero. Fuori dall’armadio una sedia rubata in un negozio dove lavoravano commessi antipatici. Speravo che gli ufo esistessero ma sarebbe stato solo un modo per spiegarsi le stranezze di alcune persone come per esempio Sara. Ogni mattina mi svegliavo in apnea e, per qualche minuto, se c’era, guardavo lei. Ragionavo usando il metro della vanità e della contrapposizione degli uomini. Come se tutto avvenisse o fosse negato in relazione a quelle due funzioni. Queste caratteristiche cambiavano di anno in anno. Erano un modo per monitorare due elementi spia della mia personalità: la maschera di turno e l’omologazione alla realtà.
Saraluna era la mia ragazza da un paio d’anni, era strana di default e anche con gli elementi spia multipli che avevo collezionato per lei, era un essere difficile da monitorare. Cambiava troppo in fretta e talvolta vestiva abiti del tutto sconosciuti. Negli ultimi giorni ancora di più e l’aria intorno a noi sembrava diventata improvvisamente densa e colorata di giallo. Proprio come il colore di un sogno ricorrente dove un Hoxy (il nuovo nome datomi da lei nei nostri primi giorni di vita) quindicenne, vedeva la sua stanza riempirsi d’acqua color liquore Strega e non riusciva a liberarsi dalle coperte rimboccate.   
I suoi occhi erano più invisibili del solito, sembravano nascosti fra la carne delle palpebre. In quegli ultimi giorni ancora di più. Due fessure misteriose dalle quali non trapelavano emozioni, o meglio, non trapelavano le sue solite emozioni, soprattutto quando mi raccontava di strani sogni che occupavano la sua RAM notturna. Sogni sulla torre di Babele che in realtà erano due, che in realtà scomparivano. 
Non riuscivo nemmeno a controllare l’intermittente strabismo che in quei due anni avevo scoperto provenire dal suo rilassamento e che ovviamente mi aveva fatto perdere la testa. I suoi capelli sembravano cresciuti di colpo. Lei diceva che erano solo diventati impettinabili. Io credevo che potesse essere solo una scusa per farla finita con quel taglio. A me piaceva tantissimo e speravo che non lo cambiasse mai. 
Da giorni si era fatta silenziosa ed era sincera quando diceva di non avere niente, ma per esempio aveva smesso di girare per casa nuda con addosso solo i suoi calzini antisdruciolo con le impronte dei gatti sulla suola. Si copriva, come per proteggersi e, da qualche tempo, aveva smesso di accorciarsi i peli del pube assicurandomi che era solo una versione anni settanta. Ogni tanto apriva il frigo, ci guardava dentro assorta e poi lo richiudeva senza prendere niente. Non stava cercando qualcosa da mangiare o da bere, piuttosto, qualcosa d’invisibile da percepire. Continuava a tirar fuori New York ma senza farmi capire il perché. Cercava un viaggio dell’ultimo minuto ma non lo aveva ancora trovato. Andava più spesso in sinagoga e a tirare le sue frecce in un bosco ma non sapevo di quale si trattasse, in ogni caso la frequenza era cambiata di poco.  
Saraluna aveva ventotto anni. Studiava architettura quando se lo ricordava. Odiava le mele lasciate a metà ad ossidare nel portafrutta (definizione del disordine), gli sportelli degli armadi aperti (paura degli intrusi), ma l’asse del wc sollevata non le dava alcun fastidio, al contrario della maggior parte delle femmine conosciute. Non capiva il perché delle posate nel terzo cassetto e la innervosivano le scarpe a forma di biscotto. Amava i mobili antichi, come i ricordi, perché diceva che le davano l’idea che da un momento all’altro, indagandoli, in un qualche doppio fondo foderato con carta a fiorellini di giglio, si sarebbe scoperta una lettera che avrebbe potuto riunificare una qualche famiglia dispersa. Amava tirare con l’arco ma non ne parlava mai; adorava il rumore delle moto rosse vecchio stile, asserendo che il rosso c’entrava col rumore; amava la musica di Bach e fare il bagno in due leggendo Topolino da sola. Non ero mai riuscito a trovare un comune denominatore fra quelle caratteristiche, a parte il disordine. La notte non riusciva mai a addormentarsi dopo di me. La mattina non si svegliava mai per prima. Ogni giorno si presentava a colazione con un’idea nuova, che poi abbandonava nel giro di poche ore. In quei giorni niente. Aveva il viso chiaro e sempre l’espressione di chi ha appena finito di fare l’amore. Le labbra umide come quel giorno sul davanzale. Negli ultimi giorni aveva rifatto il sogno che l’aveva scioccata e si era ripetuto in modo identico le ultime tre notti consecutive. Riguardava una stampa raffigurante la torre di Babele, l’aveva vista davvero nella sala d’attesa del suo dentista. Quest’ultima prendeva vita, lei vi entrava come in un cartone animato in bianco e nero, tutti fuggivano e si disperdevano, proprio come si trovava scritto sulla Bibbia. La torre si sdoppiava e pure lei, abitandole entrambe ubiquamente. A quel punto non riconosceva più qual era delle due. Poi compariva Abramo e metteva d’accordo tutti quelli che non si capivano ma le torri all’improvviso crollavano e lei si risvegliava in preda a una crisi. Quella serie di sogni la lasciava intontita per tutto il giorno ed era evidente che non mi stesse raccontando tutta la verità. La sorprendevo con lo sguardo fisso nel vuoto ma anche in quei casi cercavo di non essere invadente: mi limitavo a fare una domanda e via.

Camminavo tra la sera e la notte e tra tutte quelle considerazioni, lasciandomi il grattacielo arancione come meta finale, diciassettesimo piano. Ero immerso nella mia domanda e la prima risposta di quello scarafaggio rivoltato ruotava intorno alla paura della propria identità. Ero distratto da una strana sensazione corporea. Quella sera nel dojo le pratiche mi avevano in un certo senso modificato. Uno strano presentimento non aveva permesso che la mia mente fosse libera di trovare gli accordi nei quali risuonare. 
Alla fine della lezione il maestro aveva indicato una nuova postura e avviato una insolita meditazione “a birilli”, senza termini di tempo. Uno alla volta, a propria discrezione e in silenzio, avremmo potuto abbandonare la sala di pratica.
L’effetto fu quello di aver lasciato un segno nella mia memoria profonda, una lieve e affascinante sensazione di vuoto, durata solo qualche momento e insieme un macroscopico stordimento corporeo. 
Guardavo la notte scendere e immaginavo il bungee jumping dalla torre Velasca. Diciassette piani in caduta libera. Dovevo camminare per quaranta minuti circa e poi l’avrei avuta davanti. Ripensavo alla domanda sulla felicità, alle due ore immobili e ai due minuti di vuoto, per poi giungere al capolinea: i sogni di Saraluna. Quei pensieri zampillavano dalla mia testa disperdendosi nell’aria circostante. Incrociavo gli occhi di Saraluna ogni volta che cambiavo inquadratura, proprio allo stesso ritmo del mio battito delle ciglia. 
L’aria era quasi fredda, per essere settembre. Il corpo caldo e asciutto. Indossavo una camicia bianca, tenendola fuori. I piedi nudi nei sandali mi davano la sensazione di essere sprotetto.
Quei pensieri circolari, come microscopiche mongolfiere allacciate al mio corpo, non mi abbandonavano mai. Per un attimo lasciai da parte lo scarafaggio di Kafka e la musica rilassante della meditazione cedendo spazio a una fantasia avuta la sera prima: entravo in un locale per chiedere alla prima ragazza incontrata, di lasciarsi baciare. Subito dopo, avevo pensato a un cane che da piccolo mi aveva morso (ora avrei avuto una reazione diversa), attaccato a questo, il pensiero di vedere all’improvviso qualcuno buttarsi da un balcone, diventare l’eroe che lo salvava prendendolo al volo. Poi a un tale che, a dodici anni, mi aveva chiesto di masturbarlo. Di colpo apparivano quelle rose rosa che per il mio ultimo compleanno erano arrivate facendomi sentire a disagio. Che razza di percorsi realizzava il mio cervello? 
La coda di quella cometa di pensieri, non troppo luminosi ma colorati, sarebbe stata ben presto recisa da un incontro inatteso e quello stato d’ascolto del mio sonnolento benessere, sarebbe stato presto stordito. 
La nuova domanda era rivolta ad una Lancia Y, che da qualche minuto mi stava seguendo, spingendomi in uno stato d’inquietudine. L’avevo già notata nel voltarmi a contare le traverse. Avevo l’infondata certezza che fosse foriera di cattive notizie. Mi seguiva a passo d’uomo e io, con la mia bella camicia bianca, profumato di doccia schiuma alla menta e mirtillo, mi ero girato a guardare, sperando in una sorpresa da parte di qualche amico ma nell’auto non c’era nulla di quel genere. Niente che mi potesse lasciare indisturbato. 
Addio ai miei pensieri incontrollati. 
La macchina mi aveva affiancato. Quattro individui erano girati verso di me. I due sul sedile posteriore mi guardavano con le loro facce da mastini. I due davanti, con un sorriso burbero sul volto, sembravano voler attrarre la mia attenzione e sondare la mia paura. Invece mi sentivo solo a disagio e sulla mia faccia tesa, era impressa una sola domanda sulla provenienza dei quattro individui.
Una folla, considerate le circostanze, interessata a inspiegabilmente  a me. La borsa! Ecco! La mia borsa era uguale a quella di un loro amico. Aveva scritte orientali ricamate in argento e nell’oscurità stavano cercando di capire se fossi effettivamente lui. Mi stavo innervosendo.
Una sfrizionata e via, l’automobilina piegata sotto il peso dei quattro uomini e della forte accelerazione, si era infine allontanata non appena raggiunto l’ingresso di casa. Ero riuscito a leggere al volo la targa. Sulla bandella blu c’era la sigla di Napoli. A Milano se ne vedevano ben poche.

Un fatto semplice, senza effettiva consistenza, mi aveva rapito e ora costituiva il mio giogo. E la felicità di prima? La mia felicità come metà di un biscotto caduto nel latte, si stava per squagliare e non sarei riuscito a recuperarla. Sarebbe diventata tutt’uno con un liquido bianco e dolciastro che assomigliava alla nebbia che mi aveva sorpreso negli ultimi giorni. Di colpo era come se quella felicità non l’avessi più meritata. Era questa la più forte e stupida delle convinzioni. 
Entrai, presi un’ascensore troppo lento che saliva come una bolla d’aria in una gigantesca trachea ed era diventato un crogiolo di domande e risposte inutili, oltre che l’incubatrice di un nuovo virus emotivo per il quale non avevo ancora sviluppato anticorpi.
Arrivato in casa, i due occhi a fessura di Sara pensai che avrebbero colto ogni minima variazione d’umore, intuito domande e risposte inevase e atteso una confessione. Io di risposte sensate non ne avevo. Non volevo nemmeno preoccuparla o infettarla con quel ceppo ancora sconosciuto.

Saraluna era la mia ragazza da due anni ma si trasferiva temporaneamente da me solo nei periodi durante i quali sostituiva lo studio con dei film cinesi sconosciuti e lunghe osservazioni dall’alto sulla città notturna. In quei preziosi momenti, mi ritrovavo avvolto da un calore così denso da non sentire il bisogno di aggiunte, neppure di musica.
Era l’ultima sera della settimana trascorsa insieme. L’indomani sarebbe tornata da sua sorella Francesca, dove avrebbe resettato gli equilibri interiori destabilizzati dall’approssimarsi della fine degli studi. Io volevo qualcosa di più ma lei doveva ancora partorire una laurea in architettura che non sembrava voler uscire dalla sua pancia. Dopo di che tutto sarebbe venuto da solo.
L’ascensore più lento di Milano risaliva come un sub che riemerge dal profondo. Feci qualche smorfia guardandomi allo specchio gonfiando le guance al massimo. L’intenzione conscia era quella di togliermi quell’espressione di dosso; quella inconscia, di prendere contatto con qualcosa che non si fosse lasciato toccare dall’evento: la parte del biscotto rimasta asciutta fra le mie dita. Slacciai un altro bottone della camicia nella speranza di distrarla. Mi piaceva il ciondolo che mi aveva regalato ma lo tenevo sempre nascosto. Era un piccolissimo falco d’oro appeso a un cordino nero di caucciù che non aveva mai cambiato petto.
Amavo da morire Saraluna, non poteva che essere così. Era l’ultima sera. Me lo stava ricordando anche lo specchio dello scafandro. 
In quel periodo sembrava non ci dimenticassimo mai l’uno dell’altro. Eravamo in attesa di una svolta che immaginavamo scioccante ma positiva. Pensavo, in ogni caso, di non poter fare a meno di lei. Mi sarebbe piaciuto un rapporto con la erre maiuscola. Vivere con lei, affrontare qualche prova insieme. Cascare di petto in un progetto che ci portasse nel paese delle meraviglie ma lei era distratta da qualcos’altro. Forse avrei dovuto inventare un sistema per riagganciarla, ma avevo l’impressione che non sarebbe stato rispettoso, né leale.
Non azzardavo supporre che ci fosse un altro uomo. Me lo avrebbe raccontato, non si sarebbe caricata di un peso tanto grande. E poi la sua morale glielo avrebbe impedito. La sua fragilità non l’avrebbe sopportato e nemmeno il suo bianchissimo lenzuolo a forma di anima. 
Entrai in casa. Trovai le candele accese e le finestre aperte, la musica e il disordine generato dalla sua taurina presenza. Saraluna disseminava il terreno di oggetti, sembrava voler segnare il territorio come un animale a quattro zampe. Il profumo di melone appena tagliato e quello di shampoo alla frutta si mixavano l’uno nell’altro e riuscivano a portarmi in una dimensione sensuale. La trovai dopo essermi guardato intorno qualche momento. Stava succhiando una pesca cercando di non farla sgocciolare. Leggeva con i capelli appoggiati sulle fotocopie, appoggiate sulle ginocchia. Stava seduta per terra davanti al divano. Maglietta e slip. Gli occhiali da vista retti come sempre dalla mano destra, sottolineavano tracciando righe invisibili. Mi sedetti dietro di lei senza dire niente, chiusi gli occhi, posai delicatamente le dita sulla sua nuca e scrissi “come stai?” sovrapponendo le lettere invisibili. Il suo saluto fu quello di non rispondere. In quel gioco avevamo stabilito che non si poteva parlare. Lanciai un’occhiata quasi involontaria a quello che stava leggendo ma era crittografato nella sua lingua.
Facemmo l’amore una sola volta. Le carezze durarono fino a notte fonda poi ci addormentammo. Prima lei, poi io, come sempre. Avremmo dovuto decidere come e quando sposarci ma l’argomento non aveva trovato ancora lo spazio né il momento ideale. 
Mi svegliai tre volte allertato da una candela ancora accesa, guardai il suo viso da molto vicino, volevo essere certo che avesse gli occhi chiusi. La baciai leggero per non svegliarla. Lei sorrise senza aprire gli occhi e continuò a dormire. Guardai intorno: i vestiti lanciati a caso, la finestra spalancata sul buio dei tetti e mi accorsi che la Lancia Y non aveva smesso di seguirmi. Soffiai fuori anche quel pensiero sulla timida luce della candela e mi lasciai andare verso una mollezza rigeneratrice, provando a non trascinare quelle immagini nel sonno.

Non ci riuscii. La mente è duttile pensai. L’adattamento è una specie di ammortizzatore gigante che ti avvolge per non farti avvertire i colpi.
Poteva non esserci alcun motivo di pensarci. Continuavo a ripetermelo. Mancava un tassello però, e le ultime sue espressioni mi facevano agitare.
Quando stai bene, la paura che duri solo un attimo è in agguato. Sembra esserci un organo di controllo, nella mente, che sta lì a misurare, facendo in modo che tu non esca dai parametri.

Non ero ancora riuscito a dirlo ad alta  voce, non volevo renderlo ufficiale, ma iniziavo ad essere sicuro di averlo visto: l’uomo seduto al posto del passeggero teneva in mano una siringa. Doveva essere piena, dato che la teneva verticale con l’ago puntato verso l’alto. Trattenevo quella scena nella mente anche se era possibile che non fosse mai esistita. Cosa significava quella storia?
I presentimenti, le stranezze di Sara e quell’immagine, sembravano trovare un incastro, in una paura che non riuscivo a decodificare. Per distrarmi ripensai a una conversazione avuta con Sara nell’intervallo di un film, una settimana prima.
- Considera solo per un attimo la violenza della guerra, Hoxy. – Aveva detto lei guardando lo schermo mentre la osservavo sorridendo. Era la sera della guerra. Nel viaggio per arrivare al cinema mi aveva detto, così nel silenzio, che tra il gennaio e il maggio di quel anno, in Israele, c’erano stati trecento attentati.          
- Fai uno sforzo d’immaginazione - aveva poi ripreso.
- Riporta indietro il tempo fino ad arrivare all’inizio delle rivalità. Rifletti sulla mente dei due popoli nemici facendo pulizia come se volessi riportare indietro una speciale sveglia a lancette. Qualcosa ti fa pensare che queste persone normalmente siano educate e impressionabili dalla violenza e dalla comune visione del male no? Perché ridi? - 
Sorridevo guardando lo schermo. Mi piaceva moltissimo quando iniziava un discorso serio che non sembrava chiaro nemmeno a lei. Poi aveva continuato.
- Ora, portiamo avanti la sveglia fino al momento in cui questi uomini abbiano sperimentato, ad esempio, un omicidio plurimo, vivendolo di prima persona. Mi ascolti? – Saraluna gesticolava e mi colpiva col gomito per non farmi perdere l’attenzione. 
- Immagina che il soggetto siano gli ufficiali nazisti. 
- Un soggetto a caso… - Dissi sorridendo per depistarla.
- In quel momento per provocare in loro il sentimento di orrore per una strage, tre morti sono stati sufficienti. Nel continuare però a vedere gruppi di venti persone alla volta trucidate, non ti sembra che si formi un callo? – La guardavo, intuendo parola dopo parola che non avrei mai smesso di amarla. 
- Sì, un callo come la gomma nel tuo gomito. Ecco, sposta ancora un po’ più avanti le lancette della sveglia. Per provare di nuovo quell’orrore ci vorranno sempre più vittime, più efferatezza. No? Magari un mercato pieno di civili sul quale far saltare una bomba oppure un lager, altrimenti lo sgomento non si farebbe nemmeno sentire. Mi segui? Ecco, lo stesso credo funzioni anche al contrario. La mente si adatta al peggio ma anche al meglio. Non credi? Ma mi stai ascoltando? -
- Sì, e ho da tempo iniziato ad avere dei dubbi sulla parola mente. Se ne fa un uso troppo personalizzato, in ogni discorso. Mi sono accorto dell’inconsistenza del mio modo di usarla solo nel momento in cui mi é servita per comunicare sul serio - dissi.
- Scusa, ma certe volte ho l’impressione che la soluzione al terrore sia così lontana e impossibile che mi vado a scavare io stessa delle piccole fosse dove seppellire i brandelli di realtà che non accetto.-
Stetti in silenzio e mi girai verso di lei per dimostrarle che il discorso si faceva serio. Poi lei disse un ultima cosa.
- Durante il processo a uno dei gerarchi nazisti catturati dopo molti anni che era finita la guerra sai qual è stata una domanda ricorrente ai testimoni sopravvissuti ai campi di concentramento? -
- Dimmi -
- “Come mai non vi siete ribellati?” -
Mi vennero le rughe attorno agli occhi e non seppi cosa dire.
Era finita così, mentre iniziava il film e mentre le prendevo la mano. 
Da qualche tempo aspettavo una mutazione, desideravo incontrare qualcuno che potesse insegnarmi il vero significato delle parole. La confusione del comunicare era ciò che di più mi lasciava sconsolato. Avevo a che fare anch’io con Babele e tutto il resto. 

Feci un sacco di sogni assurdi ma non mi sorpresi affatto.

sabato 9 settembre 2017

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Capitolo 1 - Il sogno

Il cerchio si chiuderà ancora
Sorriderò e sarò potente
Sarò seguito da nuove legioni che compreranno nel mio nome
Le anime dei nuovi seguaci.
Gli dei del mistero mi saranno riconoscenti
E mi daranno vita mille volte
E mille volte per mille io prenderò anime.
La grande B di Belzebù e di Berlich
Sarà la nuova bandiera sotto cui rivivrà il mio regno.

[Adolf Hitler]




“Veniva giù tutto, come se fosse tenuto insieme da polvere e acqua. Non esisteva la resistenza, non esisteva più la forza, la coesione era una qualità scordata da coloro che l’avevano eretta. La torre si sdoppiava per poi scendere come un bambino che cade dalla sua piccola altezza, accasciandosi, svenuto, pochi centimetri lì sotto. Toccando terra avrebbe svegliato colei che lo stava sognando. Succedeva da qualche notte la stessa scena e lo stesso confuso risveglio.” 


 Standosene a cavalcioni sul davanzale di una finestra di legno che poteva essere almeno del 1910, faceva finta di non accorgersi di nessuno e di niente. Sembrava stesse pregando, le si muovevano le labbra e il suo corpo dondolava come quello di un monaco tibetano durante l’esecuzione dei mantra serali. Eravamo in un appartamento forse fin troppo grande per la sua normale funzione abitativa. Era nel centro di Milano, nel bel mezzo di una festa piena di gente che sembrava cercare il pretesto per svelare la propria originalità. Compivano tutti dei grandi sforzi per rompere la crosta di un vestito non firmato come se fosse stata la camicia di Hulk ma, non riuscendoci, cambiavano maschera di volta in volta, a seconda della scena. Solo lei non indossava altro al di fuori del suo maglione e delle sue scarpe verdi sotto il risvolto dei jeans. Lo si capiva senza nemmeno guardarla in faccia. Le sue spalle esprimevano uno strano orgoglio d'altri tempi.
Guardava fuori ma era evidente che una parte della sua attenzione fosse rivolta all’interno come a una memoria metafisica e specifica. Altresì, sembrava non trascurare il pericolo che un qualche maldestro uomo scravattato d’ufficio (di quelli ancora maleodoranti di ventola di personal computer) potesse spingerla di sotto. Emanava una dignità incurante.
Mi avvicinai a quella finestra tenendo in mano un bicchierino di plastica mezzo pieno di arachidi sbucciate da qualche macchinario pagato caro. La bellezza si voltò, come disturbata dalla mia presenza, guardandomi con un’espressione così incolore da sembrare minacciosa. Mi scrutava con un tale peso specifico da creare un vento di atomi così elettrici che l’avrebbero protetta da qualsiasi pericolo. Aveva a disposizione una tale bellezza che nessuno al mondo avrebbe potuto girarsi e andare via rimanendo uguale a prima. Io non rappresentavo una vera minaccia. Dal riflesso della finestra, infatti, bastava monitorare le mie occhiaie da libraio mancato e le braccia un po’ troppo magre, simili a quelle di un religioso del quindicesimo secolo, per essere rassicurati.
Mi ricomposi come potevo e proseguii la mia osservazione invadente. Lei aveva la bocca umida di chi ha appena finito di fare l’amore e le braccia pallide come quelle di una prostituta di lusso. Lasciò passare alcuni secondi, poi pescò alcune noccioline e riportò lo sguardo nel punto dov’era diretto un attimo prima. I tetti rossi erano l’unica inquadratura possibile, a parte una bella porzione di cielo con al centro due stelle solitarie senza nome. Abbandonai il bicchierino vicino a lei e mi allontanai facendo finta di non essere più interessato, soffocato dal timore di essere allontanato con troppa delicatezza. Provai a gironzolare fra i tavolini pieni di bicchieri usati e tartine disordinate ma, come al solito, non c’era verso di trovare un senso di agio.
La musica da night club d’alta categoria era diffusa a volume medio basso e poteva animare solo chi non la sentiva. Un terzetto di ragazze fintamente ubriache ballava, attento a non occupare il centro dello spazio. Tutti gli altri, spalmati contro le pareti, guardavano i pantaloni accorciati fino al ginocchio di una, fingendo di non inquadrare il suo fondo schiena, usando la vista come fosse un senso di poco valore. Il gin tonic che avevo recuperato sapeva di limonata ma era anche fortissimo e faceva venire voglia di fumare, ma non fumai. Adocchiai la ragazza del davanzale vinto un’altra volta dal suo magnetismo. Aveva le braccia tese lungo i fianchi e le spalle vicine alle orecchie. Di tanto in tanto approfittava del cibo contenuto nel bicchierino ma non sembrava esserne grata. Non si stava annoiando, non aveva la postura di chi non fa altro che guardarsi i piedi perchè è stufo. Ogni tanto parlava da sola, pronunciando delle brevi frasi, poi guardava le stelle qualche attimo, dopodiché tornava ai tetti. Mi chiedevo chi l’avesse invitata e il nome della maschera scivolata via suo viso.
Una bellissima sacerdotessa solitaria, orgogliosa, incurante e ingrata era diventata l'unica attrazione di quella casa. 
In ogni caso non era serata. Troppo spazio, non c’era musica adatta e le ragazze sembravano tutte volersi fare i fatti propri. La mia bevanda sembrava una bibita da piscina comunale e io ero lì da solo perché l’amica che mi aveva invitato litigava da un’ora con un tale nella sua stanza. Non facevo che gironzolare e disincatenare pensieri con in testa la costante voglia di andarmene via.
Improvvisamente sentii una mano afferrarmi il braccio. Mi girai, era lei. Non sorrideva e mi guardava negli occhi come una santa.
- Io ti dico una cosa, una breve frase, poi ci salutiamo e facciamo finta di non aver mai parlato. Tu mi rispondi quello che vuoi, anche la prima cosa che ti passa per la testa. In questo modo tu potrai conoscere i miei pensieri e io i tuoi e il nostro incontro fantasma non sarà andato a vuoto come succede sempre. Sei d’accordo? - disse la ragazza con una voce monastica e pulita.
- Sono d’accordo. - Risposi tenendo distante la mia aura dalla sua.
- Allora la mia frase è questa: Tutto nasce molto prima del momento in cui decide di manifestarsi. Come se fosse il prodotto del suo passato. - Attese. Io Inspirai.
- Certe volte spero nella guerra e mi vergogno ma non ne posso fare a meno. Non capisco come succeda ma ne sono letteralmente affascinato. - Risposi io.
Si girò e se ne andò via sparendo come il fumo di una candela appena spenta, lasciandomi lì ad annusare la sua essenza invisibile.
Decisi di chiedere la via del bagno all’uomo che metteva insieme i cocktail e persi qualche minuto per trovarla. Era un appartamento immenso, sbagliai porta e mi ritrovai di fronte a quella dell’ingresso. Sembrava un segno, decisi di andarmene. Scesi a piedi, non avevo voglia di socializzare nell’ascensore che stava per portare giù qualcuno. Arrivai al piano terra e percorsi il corridoio semibuio che conduceva al cortile. Quest’ultimo era illuminato solo dalla luce indiretta dell’androne ma era accogliente. Al centro, una vecchissima panchina di legno ben conservata, sembrava un’immagine temporanea nell’attesa di svanire in una dissolvenza incrociata.
- Hai una sigaretta normale? - Disse.
Mi girai di scatto. Era ancora la ragazza delle preghiere, stava rigirando una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Mi fece un effetto cinematografico, come se ci azzeccasse con la panchina, come se fosse la nuova inquadratura della dissolvenza. Doveva essere arrivata con l’ultimo carico dell’ascensore. Se ne stava in un cono d’ombra dando l’impressione di aspettare qualcuno.
- Mi è rimasta una di queste, non so cosa intendi per normale. - Risposi facendo attenzione a non mostrare il mio stupore né le mie occhiaie.
Tirai fuori dalla tasca un pacchetto di Chesterfield ammorbidito dalle due settimane di vita, giusto quando avevo deciso di smettere. Lei la prese senza dire niente e l’accese con uno Zippo che aveva già in mano.
Aveva i capelli tagliati in casa e un maglione appositamente bucherellato, sembrava fatto in casa anche quello, che le copriva le braccia fino oltre i polsi. Un paio di jeans sbiaditi e scarpe da tanguèra con la punta arrotondata su una piccola apertura che lasciava scoperte solo le prime due dita, nude. Tra il trentanove e il quarantuno di piede.
- Ti chiedo scusa per non averti ringraziato ma ero in una spirale di pensieri talmente ordinati che non potevo mollare. Mi stavano tornando in mente le preghiere che facevo da piccola, prima di dormire, davanti al letto. Le mie spirali hanno sempre un argomento preciso. E’ da qualche settimana che mi sono messa in testa di ricominciare a pregare. -
- E... le stavi ripetendo? -
- Provavo, le ricordavo a pezzetti. Quelle che mi insegnava mia nonna. – Disse ruotando le spalle verso la luce. - Grazie per le noccioline. – Disse poi a bassa voce senza sorridere. - Mi chiedo sempre se le sbuccia un omino o una costosissima macchina infernale. -
Aveva in mano lo stesso bicchiere di plastica vuoto e lo stava usando come posacenere. Non era capace di fumare e si muoveva lentamente. I suoi occhi, però, andavano avanti e indietro velocissimi scandendo ogni meridiano dello spazio. Passavano di tanto in tanto attraverso il mio corpo e dai miei occhi, rallentavano, poi ripartivano. Aveva qualcosa di poco terreno. Credendo negli astri era come se provenisse dalla più lontana delle due stelle che stava guardando pochi minuti prima. Forse pregava un Dio sconosciuto ai terrestri ma adorato dagli abitanti della stella.
Le domandai se stesse andando via ma la mia domanda non sembrò risuonarle negli spazi appropriati. Si sentiva la musica. Proveniva dalla finestra dell’ultimo piano e arrivava chiaramente fino al cortile. C’erano delle biciclette abbandonate ma ancora incatenate a un palo. Avrei fatto una foto alle bici e alla panchina lasciandola scura così: il flash l’avrebbe rovinata. Sarebbe stato meglio però attendere una luce nuova. In quella luce ci sarebbe finita dentro anche lei, la monaca fumatrice, e avrei avuto la prova di una tale bellezza notturna illuminata dalla luce del sole.
- Sì. Sto andando via – rispose - Non so nemmeno cosa sono venuta a fare. -
- A me è rimasto un cocktail a metà strada nella gola e ho ancora sete, il tuo bicchiere com’era? - dissi.
- Dovresti chiederlo a quella pianta. – Rispose ridendo e proiettando con lo sguardo la caduta del liquido dalla finestra. Poi, guardandosi per una frazione di secondo le dita in movimento spuntare dall’apertura delle scarpe, mi mandò uno sguardo timido.
- Dieci metri svoltando l'angolo e c’è un tipo tatuato che i cocktail li sa fare, se hai voglia ci rifacciamo. - Dissi.
Accettò e, dopo aver guardato me per tre secondi netti negli occhi e per mezzo secondo il suo telefonino, disse: 
- Devo dirti una cosa. - Sembrava dover tirar fuori una richiesta che avrebbe vincolato i giorni che stavano per arrivare. - Ho vissuto quasi tutta la mia infanzia a Roma. - Attese rivolgendo lo sguardo alla panchina ma non avevo capito il motivo di quella dichiarazione. - Ma sono nata a Tel Aviv. E sono anche ebrea. - Socchiuse gli occhi senza smettere di guardarmi.
- Lo puoi bere comunque il gin tonic? - Domandai dopo una breve attesa.
Scosse la testa e i capelli si mossero in segno di assenso.
- Posso dirti una cosa? - Dissi io. E stavolta fu lei a svincolarsi da me. - Non sono ancora musulmano anche se vado matto per il Kebab… e per i nomi arabi. -
Il resto della serata trascorse a ricordare le mie preghiere, sbagliando ogni volta e chiamandole poesie. Poi passammo ai dieci comandamenti (argomento forte per lei) per finire con le frasi tipiche da preti. Quella per me più esilarante fu: “Dobbiamo liberarci tutti dalla sensualità che ci avvolge, altrimenti Satana s’impossesserà di noi…”. Ma nell’esatto momento in cui finii di pronunciarla notai in lei un cambio d’attenzione. Mi guardò intensamente negli occhi e mi disse: 
- Perché hai detto proprio questa frase? Da dove ti è uscita? - 
Non sapevo davvero cosa rispondere e un attimo dopo fu lei a togliermi dall’imbarazzo dicendomi: 
- Scusa, non volevo interromperti, è che ogni tanto certe frasi risuonano in me come l’assordante campanello di un tram, sai quando attraversi la strada con la musica nelle orecchie e lui ti sta per tirare sotto?... - 
Finì momentaneamente così.
Non ero certo d’averla riportata tale e quale ma in quel momento il gioco aveva preso il sopravvento e, anche se quella ragazza non rideva ad ogni stupidata, fu facile esagerare.
Ad un tratto mi fece una domanda che lasciò emanare la sua serietà e un ritorno alla vibrazione precedente.
- Quanti sinonimi conosci per nominare Satana? -
Presi a rispondere con leggerezza i primi sinonimi o pseudonimi che conoscevo e che molte volte erano stati tema di conversazioni stupide. -
- Quanti ne conosci che iniziano con la lettera B? -
Inspirai e risposi che mi sembrava di ricordare solo il nome di Belzebù ma che in quel momento nemmeno quello mi sembrava così serio da farne un argomento di tale peso.
- E’ una delle cose che mi tormenta di più. Molte volte sogno una grande B ricavata da un’immensa roccia nera. È tutta cesellata di fino, decorata come una scultura impossibile da realizzare da mani umane. La sto osservando e qualcuno mi chiama da dietro picchiettandomi sulla spalla sinistra. Mi volto e alla vista di un capro parlante mi spavento e mi sveglio di colpo. -
Rimasi ad ascoltare incuriosito più dalla sua serietà che non dal tema del sogno poi fu lei a sciogliere l’incantesimo dandomi un bacio sulla guancia.

Tornai a casa dopo averle dato un passaggio a piedi ed essermi interrogato più volte sulla sua intelligenza. Aveva detto tante cose, alcune sembravano insensate ma forse non ero stato bene ad ascoltare. Si era messa a parlare niente meno che di Re Salomone e del relativo tradimento. Ero agitato. Volevo rintracciare il suo viso, confuso fra una ridda d’immagini. Mentre camminavo a passo di formica sul marciapiede che circondava l’Arena Civica, tutto sembrava avere senso, il granito che teneva insieme il marciapiede era un pezzetto del suo sogno, gli alberi mi guardavano suggerendomi una certa pace. Ogni nuvola assomigliava a un animale. Ogni passante era un messaggero Celeste.
Avevo notato che più di una volta il suo scurissimo occhio sinistro era diventato impercettibilmente strabico, per alcuni attimi. Si spostava di una frazione di millimetro all’esterno per poi ritornare al centro qualche secondo dopo. All’inizio avevo dato la colpa al gin, poi era diventato più evidente. Camminavo e pensavo a quello sguardo affascinante come una Uri del paradiso desiderando una matita per poterlo disegnare in modo da ricordarlo. Tutto si muoveva nella mia memoria troppo velocemente e il suo viso spariva e riappariva come l’immagine in un televisore sintonizzato male.

Conobbi Saraluna in questo modo. Nella più grande incertezza della ragione ma in un chiaro acquario di emozioni. Nei giorni successivi ci furono altri due incontri casuali. Il primo in un supermercato. Fui io a riconoscerla, stava scegliendo delle banane incredibilmente mature. Indossava un paio di scarpe identiche alle altre, cambiava il colore: queste bordeaux, le portava anch’esse senza calze. Mi avvicinai, la presi in giro dicendole che il reparto concime era da un’altra parte. Lei rise come se mi conoscesse da mesi e, continuando a guardare lo scaffale, non mi salutò nemmeno, pensai che mi avesse visto per prima ma fingesse il contrario. 
- Invece il reparto soprammobili di porcellana deve essere nuovo in questo supermercato -, disse poi guardando le mie banane verdi per quanto erano acerbe. 
La pelle del suo viso era bianca come lo schermo del computer in un foglio di Word. I colori dei suoi occhi sotto i neon si erano svelati: il sinistro nero come il vuoto con dei piccoli raggi verdi, il destro verde scuro come una foglia di limone illuminata dalla luna piena. Non era ancora stata richiamata sul suo pianeta.
La seconda volta fu quando mi sorprese davanti una vetrina di scarpe da donna. Ero stato attratto da un paio simili alle sue. Erano uguali al modello indossato dalle ballerine delle gare in televisione, quelle che si cospargono barattoli di brillantini nei capelli e ciò che avanza lo svuotano nella crema che mettono sul decolleté e sulle gambe. Come quella della foto in vetrina.
Ero perso nei pensieri quando mi si avvicinò lei senza farsi notare e, a un millimetro dall’orecchio, a bassa voce, mi disse: 
- Non sono belle come le mie vero? - 
Mi girai verso di lei non sapendo cosa dire ma con una voglia tremenda di rispondere qualcosa che la facesse ridere. Ero stato sorpreso proprio dal soggetto dei miei pensieri. Non avrei potuto nemmeno negarlo e, in una frazione di secondo, avrei dovuto inventare qualcosa.
- Sono due giorni che ti aspetto vuoi dirmi dove diavolo sei finita? – Dissi io continuando a guardare la vetrina.
- Amore scusami se ti ho costretto in questa posizione con il naso sul vetro per due giorni, non sapevo come vestirmi e poi lo sai che sono sempre in ritardo agli appuntamenti ma, prima o poi, arrivo! – 
Aveva gesticolato come un’attrice di teatro portando pollice e indice alle tempie, poi agganciato il mio braccio al suo.
Era stata veloce. Mi aveva sorpassato di nuovo. Girandomi vidi i suoi occhi allineati e simmetrici. Non sapevo ancora chi fosse ma aveva fatto risuonare per ben tre volte tutte le corde sparse in ogni angolo del mio corpo. Un violoncello accordato di fresco. Era come un incontro organizzato dalla televisione teso e rilassato allo stesso tempo.
- Ti perdono se mi prepari un frullato compostabile con le tue banane da concime. -
Mi sorrise e, ripetendo compostabile... sottovoce, mi invitò a casa sua quello stesso pomeriggio dandomi un appuntamento due ore dopo e avvisandomi che non sarebbe stata sola.
Arrivai. Mi accolse con calore. Era a piedi nudi. Sembrava una persona diversa, molto morbida e materna. Mentre stava finendo di frullare la frutta, mi domandò ad alta voce, dalla cucina, la conferma che non fossi schizzinoso e se avesse potuto esagerare con gli ingredienti. Risposi che poteva mettere tutto quello che voleva, avrebbero comunque vinto le banane. Si sentì appena la parola compostabile… pronunciata da lei come un sibilo.
Arrivò alle spalle del divano, dove mi ero nel frattempo seduto e mi disse di assaggiare subito la sua ricetta, che non c’era tempo e si sarebbe ossidata. Presi un bicchiere dal vassoio che teneva in mano e ne bevvi un sorso. Mi resi subito conto di avere esagerato con la fiducia. Forse era una persona distratta. Tossii. Avevo paura di aver fatto male ad auto invitarmi. Sembrava ci fosse caduto dentro un oggetto solido e si fosse tritato insieme al resto. Non sapevo come dirglielo, conteneva qualcosa che si triturava a fatica sotto i molari. “E’ un test...” Pensai tra me e me. “Vuole sondare la mia capacità di mediazione, sta misurando la mia sincerità. Vuole vedere dove posso arrivare con il comportamento mascherato del seduttore.” Un cretino qualunque si sarebbe sentito perfettamente a suo agio ma non io.
- E’ uovo… - Disse guardandomi come una zia con budino e nipote, stando in piedi come una cameriera dandy infilata nei suoi jeans di due misure più larghi.
- Intero. – Aggiunse tenendo in mano il vassoio in attesa che accadesse qualcosa.
- Compreso di guscio, intendo. – Precisò paziente.
Si sedette di fianco a me serena, come se fosse telepaticamente consapevole delle mie giostre psichiche.
- Ho letto che fa molto bene, rinforza le ossa e contiene una qualche sostanza che non si riesce a ottenere da altri alimenti. Poi tu stesso me lo hai chiesto compostabile no? -
Prese il suo bicchiere e usò un cucchiaio per gustarlo lentamente e a piccole dosi. Aveva le labbra umide e rosse.
Non sapevo cosa dire ma il sapere cos’era quella sabbiolina mi aiutò ad accettare la bevanda anche se aveva la consistenza di un frullato di ossa di gallina.
- Quella è la mia foto preferita. – Disse indicando con il cucchiaino, sulla parete, una donna in abiti da derviscio roteante su uno sfondo scuro. Poi stette in silenzio e lasciò a me il compito di osservare quello che ornava la sua casa.
- L’hai scattata tu? -
- Sì, a Konya, in Turchia, uno dei posti più belli del mondo. Dopo Gerusalemme, intendiamoci… -
“Il monastero… Che strana donna” pensai. Poi restammo ancora in silenzio.
- Io e te avremo una storia d’amore, vero? - Disse senza distogliere lo sguardo dal frullato.
Non capivo se era una domanda o un bisogno di rassicurazione. La guardai. Stava sorridendo.
- Ormai ci siamo incontrati troppe volte per poterla evitare. – Risposi per proseguire.
- Dimmi solo però cosa pensi della morte. -
Faceva delle domande che richiedevano l’assunzione di un’aria teatrale dandomi la possibilità di rispondere qualsiasi cosa, di indossare qualsiasi costume. Mi sentivo libero di rispondere anche la prima stupidaggine mi venisse in mente ma avevo la sensazione che lei avrebbe colto ugualmente il vero senso, al di là delle parole travestite.
- Della fine, intendo dire. – Precisò e mi lasciò il tempo di sbarrare gli occhi per un attimo.
- In genere quello che mi turba maggiormente nella fine di qualcosa é la responsabilità di lasciare un segno positivo. Oltre alla preoccupazione di uscirne felice. -
Lei mi volle rassicurare dicendo una frase che mi sarei ricordato a lungo. La pronunciò mentre mi guardava negli occhi alternandoli velocemente.
- Se mai dovesse accadere qualcosa tra noi, non voglio arrivare al punto di spremere la nostra anima come il tubetto esaurito di un dentifricio. Per le mie credenze abbiamo sette anni di tempo dopo di che ci sarà una conclusione. Non vuol dire per forza che sia la fine, potrebbe partire di nuovo tutto da lì, ma una conclusione è importantissima e va celebrata. E’ fondamentale il modo con cui la si affronta. -
Avrei voluto confermare ma rimasi in silenzio.
- Credo nella delicatezza dell’anima sai? (fece una pausa senza cambiare posizione) È la cosa più bella che abbiamo ed è quella parte di noi più vicina a Dio. Ho visto molte persone non accorgersi di questo e alla fine diventare scuri come diavoli. E’ facile, troppo facile… -
Fece un’altra pausa come per darmi la possibilità di decantare.
- La vedo come un lenzuolo bianchissimo e leggero sul quale è possibile scrivere la propria storia. Vorrei scrivere una storia senza macchie nere, se possibile. Una macchia rovina tutto, pensa a un cuscino segnato da una microscopica striscia di rimmel. Non ha assolutamente l’aspetto di qualcosa di pulito, anche se non l’hai mai usato, anche se lo giri dall’altra parte. -
Non avevo mai sentito parlare dell’anima in quel modo così semplice ma anche pratico e sensato. Quello che mi aveva colpito dall’inizio in quella donna era l’assenza di un abbellimento. Non sembrava voler negare le sue zone d’ombra e di conseguenza non le doveva nascondere. Perlomeno in questo mi trovavo ad avere un aggancio che mi teneva piacevolmente appeso a lei. Mi sembrava strano che partisse direttamente dalla fine ma era una modalità leggera e romantica e non mi dava nessun fastidio. Qualora avessi sentito generarsi un disagio sarebbe stato facile comunicarlo ad una persona così intelligente.
- Ti farò un regalo e, se lo desideri, tu lo farai a me, dopo andremo a cena nel ristorante più romantico che conosci e a metà della cena mi chiederai di esaudire un tuo desiderio. Poi ci daremo un nuovo nome che avrà un senso solo per noi. Infine ci baceremo leggeri come per incontrarci nel cielo la prima volta. Oltre la nona nuvola. - Disse tutto sorridendo e guardandomi con due occhi da bambina. - Sperando che quelli di Roma non siano contrari, ogni volta che prendo un’iniziativa sembra che loro lo sappiano in anticipo. -

Così conobbi Saralaura. Stranito dal suo essere, dai suoi discorsi solitari e interiori. Colpito dal suo modo di ironizzare sui dieci comandamenti. Dalla sua lentezza esterna e dalla velocità del suo spirito. Affascinato dal suo strabismo intermittente e dalla capacità spiccata di non farsi ingabbiare da una festa riuscita male, né tanto meno dalle mie battute. Incuriosito dalle sue scarpe e dalla telepatia nascosta nel sorriso, dalle uova intere e dalle banane molli, dalla serietà dei discorsi sul maligno ma soprattutto dalla sua energia propulsiva, capace di lasciare in stand-by il mio ego per ore e ore. Avrei voluto chiederle chi erano “quelli di Roma” ma mi trattenni. Immaginavo avesse a che fare con la sua religione e la loro endogamia ma non avevo voglia di dimostrarmi informale davanti a qualcosa che lei avrebbe potuto considerare sacro.
Feci in tempo a innamorarmi, anche se la sensazione che lei non avesse gran che bisogno di me era la prima in classifica fra quelle appena generatesi. Sarebbe stata ben presto smentita però da un vuoto che mi avrebbe lasciato a lungo senza pace. Era chiaro che il conto alla rovescia dei sette anni era appena iniziato e già il pensarci mi sottoponeva a una tensione che conteneva qualcosa di benedetto.